1.Il dopo-alluvione: la logica della “massima urgenza”.
Gli eventi alluvionali che si sono susseguiti fino al 2000, oltre a imprimere segni profondi sul territorio e nella memoria della popolazione, hanno lasciato anche in eredità una serie di indicazioni che, a nostro parere, val la pena non trascurare all'indomani di questo nuovo e, per la Val Pellice, tragico evento del 29-30 maggio 2008. La prima indicazione è che, nel periodo seguente all'evento, si mettono in moto delle pratiche che vengono talvolta definite di “massima urgenza”. Non ci riferiamo naturalmente a quanto viene fatto nei giorni o nelle settimane che seguono l'alluvione, agli interventi di protezione civile e al ripristino di strutture e di viabilità per permettere la ripresa della vita normale della popolazione. Parliamo invece di quanto viene fatto nei mesi o negli anni successivi, sempre con la motivazione della “massima urgenza”.
In questo caso, il prolungamento a dismisura dell'emergenza è stato spesso motivo di interventi settoriali e scoordinati, non inseriti in una considerazione delle dinamiche del corso d'acqua, mal progettati e mal realizzati. Il caso più tipico in Val Pellice è quello degli interventi in Comune di Luserna San Giovanni sul Torrente Pellice, interventi che hanno dovuto essere rifatti nei primi mesi del 2008 (fortunatamente prima dell'evento del 29-30 maggio) in quanto ritenuti instabili (in alcuni casi privi di fondazioni) e inadeguati alle necessità; il rifacimento ha comportato un ulteriore esborso di denaro pubblico per un milione e mezzo di euro.
La logica dell'emergenza è insomma spesso causa di cattive pratiche che mettono tra parentesi e fanno dimenticare quanto invece avevano insegnato gli eventi precedenti e che anche si era cominciato ad applicare da parte degli enti e amministrazioni che hanno in carico la gestione dei sistemi fluviali. Non si può dimenticare, a questo proposito, che i periodi post-alluvione sono caratterizzati da un forte afflusso di finanziamenti che, ovviamente, mettono in moto le reti consolidate degli interessi locali.
2.Il dopo-alluvione: il trionfo dei luoghi comuni.
In questa prospettiva, la seconda indicazione che ci viene dal passato è che i periodi successivi alle alluvioni sono quasi sempre il trionfo dei luoghi comuni e di affermazioni prive di qualunque fondamento scientifico che, in un gioco di va e vieni, troviamo sulle pagine dei giornali, sulle bocche degli amministratori e, via via, fino ai discorsi nei bar.
Qualche anno fa l'ATA-Associazione per la Tutela dell'Ambiente di Ciriè (TO) ha pubblicato un interessante opuscolo dal titolo significativo, L'imbroglio idrogeologico (a cura di G. Forneris, G.C. Perosino, M. Trossero, Ciriè, novembre 2000), poi ripreso dalla rivista “Nimbus” (21/22, ottobre 2001). In questo documento vengono elencati con grande lucidità i luoghi comuni che puntualmente ricompaiono all'indomani degli episodi alluvionali. E' un testo che non ha perso nulla della sua attualità e la cui lettura sarebbe molto consigliabile soprattutto a quegli amministratori che anche in questi giorni (giugno 2008) non hanno alcun timore (e vergogna) di ripetere frasi fatte e affermazioni che, sul piano tecnico-scientifico, non possono che far sorridere (o preoccupare).
Rimandando chi è interessato alla lettura del testo citato, riportiamo soltanto alcune di queste “frasi fatte” che si sentono ancora ripetere:
“bastano due gocce di pioggia per provocare piene rovinose”;
“nessuno pulisce le briglie dei torrenti”; “la piena è stata provocata dall'apertura delle dighe”; “i tronchi portati dalla corrente hanno fatto crollare i ponti”; “nessuno provvede più a pulire I fiumi”; “i problemi del dissesto idrogeologico sono provocati dall'abbandono della montagna”; “oggi non si garantisce più la manutenzione dei boschi come in passato”,
per finire, naturalmente, con la generalizzata lamentela per quei
“lavori di disalveo e arginatura che erano stati richiesti ma non realizzati” e per tutte
“quelle isole che ancora ostacolano il deflusso dell'acqua”. Ognuna di queste “frasi fatte” nasconde ovviamente semplificazioni, analisi errate, falso buon senso e porta, spesso, a scelte profondamente sbagliate nella gestione del territorio.
Un possibile “luogo comune” (culturalmente più “aggiornato”) è anche quello dei “cambiamenti climatici”, un processo globale indubitabile ma che difficilmente può essere accettabile utilizzare all'interno di una dimensione locale e su una scala temporale ristretta.
Tipico di questo tipo di luogo comune è quello di dire “
le alluvioni si verificano con tempi sempre più ravvicinati”, affermazione immediatamente smentita dall'esame delle serie storiche degli eventi alluvionali del passato. Pensiamo soltanto all'esempio del ponte dell'Albertenga, a Torre Pellice, distrutto dalle alluvioni per ben 15 volte negli ultimi due secoli e precisamente nel 1846, 1853, 1869, 1890, 1910, 1920, 1928, 1945, 1946, 1947, 1949, 1953, 1977, 2000, 2008, con una evidente accentuazione della frequenza degli eventi nella seconda metà degli anni '40/inizio anni '50.
3.Il dopo-alluvione: la “ricerca dei colpevoli”.
La terza indicazione che ci viene è quella di diffidare della “ricerca dei colpevoli” che si scatena all'indomani delle alluvioni e che, puntualmente, abbiamo ritrovato con grande fastidio anche all'indomani dell'evento del 29-30 maggio 2008. Il discorso su questo punto deve per necessità essere duplice: da una parte il modo con cui gli organi di informazione (in particolare i giornali) “gestiscono” le emergenze ambientali; dall'altra la maniera con cui gli amministratori locali rilanciano la questione delle “responsabilità”.
Per quanto riguarda i giornali, l'impressione che molti hanno avuto è che almeno una parte della stampa locale (in particolare “L'Eco del Chisone” e “Riforma/L'Eco delle Valli Valdesi”) abbia lavorato con una grande correttezza, soprattutto a paragone di alcuni organi della stampa quotidiana nazionale. Su questi ultimi già il giorno dopo ai tragici eventi di Villar Pellice si potevano leggere interviste che indicavano in presunti “disboscamenti selvaggi” la causa della frana che aveva provocato vittime e distruzione (un giudizio poi nettamente smentito dalle analisi tecnico-scientifiche condotte in loco). L'uso solo strumentale di questi scenari per “fare notizia” è dimostrato anche dalla poca “tenuta”, in termini di tempo, che l'alluvione del 2008 in Val Pellice ha avuto sulle pagine di quegli stessi giornali:
dopo poco più di una settimana ad essa non veniva più dedicata neppure una riga e si poteva passare senza problemi a parlare piuttosto degli “effetti depressivi” del lungo periodo di pioggia In questa prospettiva va anche denunciato l'uso strumentale che, da parte degli stessi organi di informazione, è stato fatto dell'indagine che ogni anno Legambiente e il Dipartimento della Protezione Civile fanno sul dissesto idrogeologico in Italia nell'ambito della campagna nazionale
operazione Fiumi (Legambiente/Protezione Civile Nazionale,
Ecosistema rischio 2007. Monitoraggio sulle azioni dei comuni italiani per la mitigazione del rischio idrogeologico , Roma 2008). Si tratta di un rapporto che, sulla base della compilazione di un questionario da parte dei comuni, conduce un monitoraggio sui seguenti indicatori: urbanizzazione delle aree a rischio, manutenzione del territorio e delocalizzazione delle strutture a rischio, efficacia dei piani di emergenza, informazione della popolazione sui rischi del territorio. Sulla base delle risposte pervenute viene compilata una “classifica”, con lo scopo soprattutto di sottolineare la necessità primaria per gli amministratori di non aumentare l'”esposizione” di insediamenti e strutture al rischio idrogeologico (alluvioni e frane), operando quando possibile per la delocalizzazione, lavorando nel contempo alla organizzazione di piani di emergenza efficaci (in particolare con piani di sgombero delle persone in caso di allerta). Un rapporto, dunque, che non può certo essere utilizzato per la ricerca di supposti “colpevoli” (soprattutto nelle ore di una tragica emergenza).
4.Il dopo-alluvione: “non vogliamo essere considerati esondabili!”.
Ma, al di là di questi esempi di cattivo giornalismo, non va dimenticato anche l'altro fenomeno tipico del dopo-alluvione: il caso di quegli amministratori locali che “denunciano” il fatto che, nonostante il loro impegno e le loro richieste,
non sono stati fatti gli argini, non sono stati scavati gli alvei, non sono state eliminate le isole e la vegetazione, non sono stati fatti interventi “definitivi”, non si è “messo in sicurezza”, l'AIPo e la Regione non ci hanno ascoltato, ecc.ecc.
E' chiaro che, come osserva il rapporto dell'ATA sopra citato, queste affermazioni sono il sintomo di un atteggiamento tipico della nostra società e della nostra cultura, per cui è difficile,
per l'uomo tecnologico, accettare passivamente lo scatenarsi delle immani forze della Natura e l'inevitabilità di processi che da sempre caratterizzano la storia geobiologica della Terra e che anche la “ricerca dei colpevoli” è indizio di un illusorio bisogno dell'uomo di considerare tutto ciò che gli sta attorno come una sorta di mondo artificiale e quindi controllabile grazie alla tecnologia. Un atteggiamento questo che è però, purtroppo, poco adatto ad abituarci a convivere con i rischi naturali presenti sul territorio (soprattutto in montagna): “convivere” vuol dire soprattutto conoscere, essere prudenti, non sottovalutare, non avere illusioni su una sicurezza “definitiva” irraggiungibile.
Ma, nel caso degli amministratori sopra citati, la ricerca dei “colpevoli” vuol dire, nella maggior parte dei casi scaricare al livello degli enti superiori di grado (di solito Regione e AIPo) la responsabilità per una gestione del territorio che, nel periodo precedente agli eventi alluvionali, li ha visti protagonisti. Non a caso la pratica corrente è quella di ricostruire tutto “com'era e dov'era”, anche quando è evidente la pericolosità dei luoghi o l'inutilità delle opere “di difesa”. Tutti abbiamo assistito in passato (e puntualmente anche questa volta) al triste spettacolo delle proteste degli amministratori per i vincoli posti dalle fasce di pertinenza fluviale, per le limitazioni all'edificazione e alle attività in aree individuate come pericolose e a rischio. “
Non vogliamo che l'AIPo ci consideri esondabili!” , leggiamo su un giornale locale: chissà se chi ha pronunciato quella frase si è reso conto della sua assurdità; è comunque un buon indizio del modo con cui vengono affrontate localmente le questioni relative al rischio idrogeologico.
Da parte degli amministratori, la richiesta corrente è spesso quella di una maggiore autonomia di intervento, “saltando” gli enti di rango superiore (Regione e AIPo), ricevendo finanziamenti diretti per la realizzazione di argini o interventi di disalveo sul loro territorio (magari in accordo con i cavatori di inerti che, si sa, potrebbero addirittura realizzare questi interventi gratuitamente). Questa impostazione è davvero l'aspetto più pericoloso e reoccupante del dopo-alluvione: in ambito scientifico è ormai consolidata la convinzione che gli interventi settoriali su un corso d'acqua hanno un effetto negativo sulle dinamiche generali del bacino e spesso aggravano anche i problemi relativi al rischio idrogeologico.
L'approccio corretto ai problemi (ripetiamo: anche del rischio idrogeologico) dev'essere quello della considerazione complessiva delle dinamiche del corso d'acqua, in particolare per quanto riguarda i fenomeni dell'erosione, del trasporto solido, della sedimentazione e, non ultimo, del ruolo che la vegetazione può svolgere per un miglior equilibrio dell'insieme. Va detto, a questo proposito, che (nonostante le affermazioni di qualche amministratore) l'AIPo ha operato una svolta significativa in questa direzione (soprattutto rispetto alla monocultura dell'ingegneria idraulica che caratterizzava il “vecchio” MagisPo).
L'applicazione della “direttiva sedimenti” dell'Autorita di Bacino ha portato alla realizzazione di studi complessivi e (finalmente) multidisciplinari riguardanti le dinamiche fluviali (lo studio pilota ha riguardato, per la Provincia di Torino, l'Orco; è in fase di conclusione quello sul Pellice).
Si apre dunque ancora una volta uno scenario già visto in passato: il conflitto tra la rete delle “cattive pratiche”, degli interessi locali, dello spreco di denaro pubblico e della ricerca di facili consensi, della sempre maggiore esposizione al rischio, da una parte, e, dall'altra, le “buone pratiche” della gestione pianificata e consapevole del territorio, addirittura meno costosa e più efficace per evitare danni alle cose e alle persone. Nel frattempo ci permettiamo di consigliare agli amministratori locali interessati (soprattutto ad evitare di far brutta figura con le loro dichiarazioni pubbliche) la lettura dell'utile dossier pubblicato da Legambiente e dalla Protezione Civile Nazionale, dal titolo
Le buone pratiche per gestire il territorio e ridurre il rischio idrogeologico (Roma 2007), dove si possono trovare chiarimenti circa fenomeni e concetti come: dissesto idrogeologico, erosione, escavazioni, messa in sicurezza, pulizia dell'alveo, delocalizzazione, riequilibrio della sedimentazione, incremento della capacità d'invaso, sovralluvionamento, ecc.
5.L'alluvione del 2008: primi spunti di analisi.
In prima approssimazione, un confronto tra l'evento alluvionale del 28-30 maggio 2008 e quello del 13-16 ottobre 2000 è possibile sulla base dei rapporti elaborati dall'ARPA/Regione Piemonte (
Rapporto sull'evento alluvionale del 13-16 ottobre 2000 e Rapporto preliminare sull'evento alluvionale del 28-30 maggio 2008, disponibili sul sito
www.arpa.piemonte.it
Una differenza significativa può essere individuata nel fatto che le precipitazioni del 28-29 maggio
si sono inserite in un quadro idrogeologico pregresso di parziale saturazione dei suoli, dovuto alle piogge cadute nelle ultime due settimane che ha contribuito a rendere più marcata la risposta dei corsi d'acqua. Va rimandata ai tecnici la valutazione della connessione tra questo fatto e la maggiore incidenza dei fenomeni franosi (almeno sul piano dei danni a persone e strutture) rispetto ai fenomeni di esondazione dei corsi d'acqua. Come si legge nel rapporto ARPA,
i mesi di aprile e maggio sono stati caratterizzati da precipitazioni al di sopra della media ed in particolare, nelle due settimane antecedenti l'evento, il Piemonte è stato interessato ripetutamente da piogge diffuse. Da questo punto di vista, sembra caratterizzare questo evento proprio il fatto che
i fenomeni più ricorrenti sono stati quelli legati alle dinamiche torrentizie, con le attivazioni di bacini idrografici laterali, di dimensioni anche ridotte. In questa prospettiva va ancora chiarito meglio il nesso tra le frane e il trasporto solido da esse alimentato nei corsi d'acqua, possibile elemento scatenante l'attività erosiva nei torrenti minori e poi lungo l'asta principale. Altro elemento che andrebbe ancora analizzato sarebbe quello del generalizzato sottodimensionamento degli attraversamenti, delle tubazioni e delle opere similari.
In termini sempre di confronto con gli eventi precedenti, pur all'interno di
una distribuzione al suolo realmente discontinua, data soprattutto da precipitazioni non uniformi e con intensità molto variabile,
nell'effettuare una prima valutazione generale dell'evento si ritiene sottolineare come, a fronte di un episodio con conseguenze estremamente gravi (Villar Pellice, località Garin), gli effetti al suolo, seppur diffusi, non sono comunque confrontabili, in termini di gravità e diffusione sull'intero territorio regionale, con quelli degli eventi dell'ottobre 2000 e del novembre 1994. Una considerazione analoga può essere fatta in relazione agli eventi del giugno 1957 e del maggio 1977. Un confronto, ad esempio, sulle portate al colmo di piena registrate alla stazione idrometrica del Chisone al ponte di San Martino ci indica, per il 2000, un colmo di 980 m3/s, per il 2008 di 650 m3/s.
Sembra di poter affermare che i fenomeni che si sono verificati abbiano, nella maggior parte dei casi, riguardato situazioni già segnalate o conosciute storicamente.
Caso tipico è quello dei corsi d'acqua che in particolare nel tratto pedemontano hanno interessato spazi e sezioni che, per cause antropiche o naturali, erano stati limitati o ristretti, provocando in alcuni casi esondazioni, erosioni spondali, surmonto e asportazione di ponti (le citazioni sono tratte dal
Rapporto preliminare sopra citato).
In questa prospettiva andrebbe correttamente analizzata la funzionalità delle opere realizzate soprattutto dopo l'evento del 2000, in modo tale da evitare, come si è detto sopra, interventi scoordinati o inutili, dettati soltanto dalla ambigua motivazione dell'”urgenza”. Sempre in relazione ad una riflessione sulle caratteristiche dell'evento del maggio 2008 andrebbero, a nostro parere, riconsiderate le procedure relative ai piani di emergenza a livello comunale, soprattutto in termini di procedure di sgombero precauzionale, in modo tale da permettere una migliore salvaguardia delle persone in situazioni di rischio.
Da questo punto di vista riteniamo che (finalmente!) bisognerebbe cominciare a parlare più correttamente di “mitigazione del rischio” e non di “messa in sicurezza”, quando si tratta della manutenzione dei territori montani e delle aste fluviali, in modo tale da far aumentare la consapevolezza (oggi perduta?) in chi vive in montagna o lungo i corsi d'acqua che non esiste il “rischio zero” e che occorre tornare ad avere un “sano” rispetto per le dinamiche naturali (le piene sono fenomeni “normali”, non risolvibili con artifici tecnologici, e non esistono eventi “senza precedenti”, ma sempre “con precedenti”).
6.L'evento alluvionale in Val Pellice: primi spunti di analisi.
Riprendendo ancora quanto sopra riportato dal
Rapporto preliminare di ARPA Piemonte, val la pena di compiere una prima verifica rispetto ai danni alluvionali provocati dai corsi d'acqua che
in particolare nel tratto pedemontano hanno interessato spazi e sezioni che, per cause antropiche o naturali, erano stati limitati o ristretti, provocando in alcuni casi esondazioni, erosioni spondali, surmonto e asportazione di ponti. In effetti, in termini generali e in riferimento in particolare al caso del Torrente Pellice, sembra confermata l'impressione che, nella maggior parte dei casi, si sia trattato di situazioni già segnalate o conosciute storicamente. Questa considerazione, lo ripetiamo, può essere molto utile per valutare la correttezza (e l'economicità) sia degli interventi realizzati prima e dopo il 2000, sia di quelli che sono in corso d'opera in questo periodo o che si intende realizzare in futuro. Gli esempi che vengono riportati sono frutto di prime analisi ed osservazioni, necessariamente da precisare successivamente e validi soprattutto come primi spunti di riflessione.
Una prima impressione è che i tratti del corso di media valle del Torrente Pellice caratterizzati da una maggiore naturalità e meno interessati in passato da interventi di disalveo o arginatura hanno reagito bene a questo evento di piena, sia in termini di relativa stabilità che in termini di assorbimento degli effetti a valle. In due significative sezioni (tratto tra Villar Pellice e Torre Pellice e tratto a valle del ponte di Luserna) si sono notati (nonostante l'imponenza dell'evento) soprattutto rioccupazione o incisione di vecchi alvei (com'è anche il caso della distruzione dell'area ricreativa dell'Albertenga), con una buona tenuta anche delle fasce di vegetazione riparia, che hanno dimostrato egregiamente la loro funzione antierosiva, di controllo del trasporto solido e di rallentamento della corrente.
In questa prospettiva andrebbe riconsiderata (soprattutto nel momento della programmazione di lavori post-alluvione) la gestione degli spazi di pertinenza fluviale, a partire dall'osservazione che, ad ogni evento di piena significativo, i canali differenti da quello principale vengono sempre riattivati. In effetti, come ben sanno geologi e geomorfologi, i corsi d'acqua di fondovalle o dell'alta pianura sono per natura “pluricursali” (presentano cioè più bracci variabilmente intrecciati tra loro nello spazio e nel tempo, con molta o poca acqua) e non “monocursali” (con un solo canale di scorrimento dell'acqua).
Una considerazione analoga a quella fatta per il corso di media valle, potrebbe essere applicata anche alle sezioni di pianura del Pellice, in particolare per tutto il tratto a valle del ponte tra Vigone e Villafranca, dove i fenomeni di erosione hanno interessato soprattutto aree spondali occupate dalla cerealicoltura o dalla pioppicoltura (di per sè fragili sul piano idraulico), mentre le aree di vegetazione riparia naturale o seminaturale hanno, ad una prima impressione, dimostrato un'eccezionale capacità di laminazione e accumulo del trasporto solido.
La tendenza alla ripresa di conformazioni o percorsi segnalati o storicamente documentati è anche presente in quelle sezioni in cui più intensa è stata nell'ultimo decennio l'attività di ricalibratura, disalveo e costruzione di difese spondali. Tipico è in questa prospettiva il caso del ponte di Montebruno che ha visto ripetersi uno scenario già verificatosi più volte in passato, con intensa erosione (e distruzione di arginature) in riva sinistra a monte del ponte, accompagnata da distruzione delle opere di difesa immediatamente a monte del ponte in riva destra, con tendenza a sormontarlo. Questa “stabilità” storicamente dimostrabile delle dinamiche del corso d'acqua dovrebbe essere occasione di riflessione nella realizzazione di nuovi interventi in quanto, in questo caso, non si può certo affermare che siano mancati in passato operazioni di rimodellamento anche profondo dell'alveo.
In realtà, in questo caso come in molti altri, andrebbe riconsiderata la dinamica del corso d'acqua anche per la parte a monte, riflettendo se la continua necessità di ricostruire le opere di difesa che si verifica in questo punto non sia anche la conseguenza del dissesto delle dinamiche erosione/sedimentazione provocate dai numerosissimi interventi che sono stati realizzati a monte nell'ultimo decennio.
Questa prospettiva di analisi può essere utile, a nostro parere, anche per analizzare i danni che si sono verificati alle opere di presa dei canali irrigui nell'area a monte e a valle del ponte di Bibiana. L'evento alluvionale del maggio 2008 ha ancora una volta messo in evidenza la situazione di progressivo abbassamento dell'alveo del corso d'acqua, con una difficoltà sempre maggiore da parte delle opere di presa a captare l'acqua da derivare.
Proprio nel momento in cui è programmato un ingente impiego di denaro pubblico per il rifacimento di queste opere, sarebbe opportuno (come Legambiente ha più volte segnalato) che questo esborso fosse accompagnato da precise e rigide indicazioni sulla gestione del corso d'acqua, soprattutto nel senso di evitare nel modo più assoluto che, a monte, si prosegua con opere di disalveo e nella prospettiva di salvaguardare invece la funzione stabilizzatrice delle aree fluviali intermedie.
Sempre parlando di canali di derivazione, vogliamo segnalare per l'ennesima volta che in Comune di Torre Pellice le prese di due canali ad uso idroelettrico (uno a monte del ponte dell'Albertenga, l'altro a monte del ponte Blancio) vengono realizzate mediante deviazioni del corso d'acqua verso la riva sinistra, con possibili e pericolosi effetti di incanalamento delle ondate di piena verso aree caratterizzate dalla presenza di numerosi insediamenti o infrastrutture. Nel caso dell'area dell'Albertenga, Legambiente aveva più volte segnalato la pericolosità di una frana attiva sottostante la frazione Fassiotti, frana percorsa da uno dei due canali sopracitati e interessata durante l'evento del 29-30 maggio da una ripresa intensa dell'erosione, con l'evidenziazione e parziale scalzamento di difese realizzate dopo l'evento del 1949.
Concludiamo con qualche considerazione sui lavori realizzati dopo l'evento del 2000 e che sono stati (un po' frettolosamente) giudicati “efficaci” dagli stessi amministratori che li avevano promossi. In realtà si sono verificati significativi scalzamenti delle opere a monte del ponte Cro di Villar Pellice (riva sinistra), a monte del ponte dell'Albertenga (rive destra e sinistra)e a monte del ponte Blancio (riva sinistra e riva destra) a Torre Pellice; a valle dello stesso ponte Blancio sono state scalzate profondamente le difese del piazzale del vecchio palazzetto del ghiaccio e (ormai in Comune di Luserna San Giovanni) le difese (sempre in riva sinistra) recentemente realizzate a valle della confluenza dell'Angrogna.
Al ponte della provinciale per Rorà/Lusernetta a Luserna San Giovanni sono state danneggiate le opere recentemente realizzate (camere in cemento e massi legati con corde d'acciaio) per evitare l'erosione della base dei pilastri. Val la pena ricordare, a questo proposito, che il ponte di Luserna, a partire dalla seconda metà del 1995, è stato interessato, anche alla base delle sue arcate da lavori di disalveo (allora giustificati dalla necessità di aumentare la sezione di deflusso) che hanno innescato fenomeni di erosione,con la conseguente necessità di realizzare (con una logica rovesciata) le nuove opere. Un evidente caso di “schizofrenia”, facilmente spiegabile, come detto all'inizio, con il fatto che i periodi post-alluvione sono caratterizzati da un forte afflusso di finanziamenti che mettono in moto le reti degli interessi locali (soprattutto nel circuito amministratori/progettisti/imprese).
(giugno 2008)